Avvelenamenti: approccio d'emergenza
- Disciplina: Medicina d'urgenza
- Specie: Cane e Gatto
Quando si sospetta o si diagnostica un avvelenamento, valutati i parametri vitali del paziente e verificato che non vi è un pericolo di vita imminente, si procede ad un’anamnesi accurata. Le informazioni anamnestiche devono riguardare:
- insorgenza e progressione della sintomatologia;
- sintomatologia di altri animali conviventi;
- utilizzo e accessibilità alle sostanze tossiche, citandole (ad es. pesticidi, erbicidi, antiparassitari, rodenticidi, vernici, solventi, farmaci e prodotti di uso domestico);
- presenza di piante ornamentali;
- tempo intercorso dall'avvelenamento all'accettazione;
- terapie in atto per patologie pregresse.
Se il proprietario conosce in veleno a cui è stato esposto il paziente, è necessario chiedere di portare il veleno così da verificarne la composizione e la concentrazione, quindi si cerca di ricostruire la dose assunta. La confezione contenente la sostanza tossica può risultare utile anche perché il produttore dovrebbe indicare la concentrazione, la via di esposizione al tossico e gli eventuali antidoti.
VALUTAZIONE DEL PAZIENTE AVVELENATO
All'accettazione di un paziente intossicato o avvelenato devono essere rilevati e scritti i parametri vitali secondo il seguente ordine cronologico:
- pervietà delle vie aeree;
- ventilazione polmonare: modello e frequenza;
- apparato cardiovascolare: frequenza cardiaca, caratteristiche del polso, colore delle mucose e tempo di riempimento capillare;
- stato di coscienza e rilievo di eventuali sintomi neurologici;
- temperatura corporea.
Vie aeree. Ogni paziente che manifesta perdita di coscienza, paralisi/paresi neuromuscolari, distress respiratorio può necessitare dell’intubazione orotracheale e una ventilazione a pressione positiva. L’intubazione è necessaria anche quando si effettua una lavanda gastrica. Quando si riscontra ipossiemia è necessario somministrare ossigeno, mentre quando si diagnostica un distress respiratorio con ipercapnia è necessario sostenere la ventilazione con procedure adeguate.
Apparato cardiovascolare. Un’adeguata disponibilità d’ossigeno (DO2) dipende dalla gittata cardiaca, dal volume di sangue circolante e dal contenuto totale di ossigeno nel sangue (CaO2), perciò nei pazienti nei quali si riscontra un deficit di perfusione è necessario ripristinare un circolo efficace con una fluidoterapia rianimatoria e se ritenuto opportuno, associare anche la somministrazione di ammine vasoattive. Una valutazione elettrocardiografica (ECG) deve essere effettuata quando si sospettano aritmie o sono rilevate anomalie del polso e dei suoni percepiti all’auscultazione cardiaca. Alcune piante tossiche, come l’oleandro, sono cardiotossiche, perciò è sempre bene oltre a verificare la tossicità della pianta anche la sua eventuale cardiotossicità. Alcune tossine colpiscono direttamente la muscolatura liscia della parete vascolare mentre altre danneggiano l’endotelio vasale, per questo motivo nei pazienti avvelenati è sempre utile misurare la pressione arteriosa. Quando si diagnostica un’ipertensione (pressione arteriosa sistolica >160 mmHg) può rendersi necessario somministrare farmaci ipotensivi quali l’amlodipina 0,1-0,4 mg/kg/os/sid o, nelle forme gravi, utilizzare vasodilatori diretti, ad esempio l’idralazina 1,0-2,5 mg/gatto/sc o 2,5-10 mg/os/q12h; nel cane, 0,5-3 mg/kg/os/8-12ore (iniziando con la dose più bassa e titolandola ad effetto) o il nitroprussiato di sodio alla dose di 0,5-1 ug/kg/min/CRI/ev. Quando si utilizzano i farmaci vasoattivi è necessario monitorare la pressione arteriosa; l’insorgenza di tachicardia, mucose pallide, estremità fredde, e aumento del tempo di riempimento capillare può indicare un deficit del volume circolante, uno shock ipovolemico o cardiogeno.
Sintomi neurologici. I pazienti che manifestano crisi convulsive o gravi tremori della muscolatura scheletrica devono essere trattati rapidamente. Inizialmente possono essere somministrate le benzodiazepine quali il diazepam o il midazolam; il primo si somministra alla dose di 0,5-1 mg/kg/ev/bolo; i pazienti in terapia cronica con fenobarbitale possono necessitare di dosi maggiori (2 mg/kg/ev,) a causa dell’aumento della metabolizzazione epatica indotta dalla somministrazione protratta di barbiturici. Il midazolam si somministra alla dose di 0,3-0,5 mg/kg/im,ev/bolo; essendo preparato in veicolo acquoso si può somministrare anche per via intramuscolare, ha una durata d’azione più breve del diazepam ma possiede un effetto miorilassante maggiore, può essere molto utile per controllare le contrazioni muscolari nei pazienti in crisi convulsiva così da ottenere un accesso venoso. La somministrazione intramuscolare del midazolam ha un’insorgenza d’azione paragonabile alla somministrazione endovenosa. Quando non è disponibile un accesso venoso è possibile optare per la somministrazione del diazepam per via intranasale o rettale alla dose di 1-2 mg/kg, o anche per via intramuscolare, in quest'ultimo caso si utilizza la dose endovenosa. Nei pazienti che rispondono positivamente alle benzodiazepine, la cui durata d’azione è però troppo breve, è possibile somministrarle in infusione continua: diazepam 0,5-2 mg/kg/ora/ev, midazolam a 0,05-0,3 mg/kg/ora/ev.
Quando il diazepam non riesce a controllare le crisi convulsive è possibile utilizzare i barbiturici come il fenobarbitale alla dose di 2-6 mg/kg/im. Quest’ultimo necessita di 15-20 minuti per iniziare a svolgere attività; quando entro 30 minuti dalla sua somministrazione non si ottengono risultati è possibile ripetere la dose fino a 15 mg/kg nelle 24 ore. Il pentobarbitale è utilizzato quando le benzodiazepine non sono efficaci, si somministra alla dose di 2-10 mg/kg/ev a effetto, può controllare le crisi convulsive, ma è da considerare solo in caso d insuccesso delle terapie precedenti perché può produrre fenomeni di accumulo, viceversa il propofol possiede un’attività antiepilettogena e non dà fenomeni di accumulo nel cane (nel gatto in caso di infusioni prolungate possono comparire fenomeni di accumulo); si somministra alla dose di 1-8mg/kg/ev o in cri a 0,01-0,25 mg/kg/ora.
Valutate le condizioni del paziente è necessario:
- identificare eventuali squilibri acido-base, elettrolitici e determinare un minimum data base (almeno glicemia, proteine totali e azotemia);
- effettuare la decontaminazione (ad es. gastroenterica o cutanea);
- effettuare la terapia di supporto delle funzioni vitali e d’organo specifiche quando necessarie.
Gli effetti diretti delle sostanze tossiche e le conseguenze prodotte dalla loro ingestione quali vomito, diarrea, convulsioni e tremori muscolari possono modificare pericolosamente l’equilibrio acido-base, causare deplezioni elettrolitiche, modificare l’azotemia e in alcuni casi produrre insufficienze d’organo. Per questo motivo in corso di avvelenamento si consiglia di effettuare sempre il cosiddetto “emergency data base” (EDB) che prevede la valutazione dello stato acido base e la misurazione di: elettroliti principali (sodio, potassio, cloro), ematocrito, proteine totali, azotemia e glicemia. Conoscendo tutti questi dati è possibile eseguire una fluidoterapia mirata senza incorrere in errori nella scelta del fluido, evitando così errori che possono compromettere le funzioni vitali o aggravare le condizioni del paziente (ad es. iponatriemia e alcalosi). Gli squilibri acido-base ed elettrolitici lievi, di più comune riscontro, quali ad esempio l’acidosi metabolica e l’ipopotassiemia, sono corretti con la fluidoterapia di mantenimento effettuata con soluzioni cristalloidi bilanciate somministrate per via endovenosa nelle prime 24 ore; naturalmente la fluidoterapia deve essere associata alla terapia eziologica e di supporto.
In alcuni pazienti è possibile diagnosticare squilibri acido-base misti difficili da trattare come ad esempio l’acidosi metabolica da insufficienza circolatoria associata a un’acidosi respiratoria da depressione del SNC conseguente alla somministrazione di farmaci depressanti il SNC (ad es. benzodiazepine e barbiturici). In questi casi una mancata diagnosi e quantificazione del disturbo possono essere responsabili di un esito infausto o prolungare il tempo necessario al recupero delle funzioni vitali del paziente. L’acidosi respiratoria da ipoventilazione è tipica degli avvelenamenti acuti a causa dell’effetto delle numerosissime tossine che agiscono sulla muscolatura scheletrica e a carico del SNC.
Le alcalosi dovute all’emesi (perdita di acido cloridrico di proveninza gastrica) si trattano con gli antiemetici e fluidi aventi pH acido (soluzione salina 0,9%). L’iperventilazione causata da dolore o da ipossia produce un’alcalosi respiratoria che deve essere trattata con terapia eziologica. Alcuni avvelenamenti sono in grado di alterare direttamente i seguenti parametri che devono sempre essere verificati: glicemia, calcemia, kaliemia, natriemia e cloremia, in alcuni casi invece le alterazioni di tali parmetri sono conseguenti alle complicazioni metaboliche indotte dall’avvelenamento (ad es. ipoglicemia nelle crisi convulsive conseguente a deplezione delle scorte di glucosio), per questo motivo è buona norma monitorarli sempre negli avvelenamenti gravi. Quando si sospetta una lesione epatica acuta, oltre all’EDB è necessario eseguire anche i test della funzionalità epatica (ad es. albumina, bilirubina totale, acidi biliari, e test della coagulazione).
DECONTAMINAZIONE GASTROENTERICA
Con la decontaminazione gastroenterica si cerca di prevenire o diminuire l’assorbimento del tossico. Prevede tre fasi:
- eliminazione gastroenterica (induzione dell’emesi, lavanda gastrica, irrigazione intestinale, clisteri);
- somministrazione di adsorbenti intestinali o agenti chelanti;
- gastrotomia.
L’emesi deve essere indotta se l’assunzione del veleno è avvenuta nell’arco di 1-2 ore. In alcuni casi se sono state ingerite capsule o compresse, queste possono ridurre l’assorbimento e l’emesi può essere indotta anche successivamente alle 2 ore. Per indurla nel cane e nel gatto si possono usare diversi farmaci: il perossido d’idrogeno al 3% somministrato per via orale alla dose di 1-2 ml/kg irritando la mucosa gastrica provoca il vomito entro 10-20 minuti; il detersivo liquido per piatti alla dose di 10 ml/kg agisce allo stesso modo e induce l’emesi dopo circa 20 min. dall’ingestione. L’efficacia di questi due metodi dipende anche dalle condizioni della mucosa gastrica, se il paziente ha infatti assunto di recente del cibo contenente grassi l’emesi può essere difficile da ottenere e quando si ottiene è ritardata o parziale ed inefficace nel rimuovere il veleno in toto. Entrambe le sostanze possono aggravare le lesioni della mucosa del tratto gastroenterico già lesionata dall’ingestione della sostanza tossica. Molto più affidabile, per quanto concerne l'efficacia, è l’apomorfina, agisce a livello centrale e sui chemocettori della trigger zone, se somministrata per via intramuscolare l’effetto si manifesta nell’arco di 5 minuti circa, se somministrata per via endovenosa l’effetto è immediato, puo’ provocare depressione cardiaca, respiratoria, del sistema nervoso centrale e vomito protratto. La dose di apomorfina nel cane è di 0,03 mg/kg/ev, 0,04 mg/kg/im, 0,08 mg/kg/sc o 0,3 mg/kg diluita con preparazione sterile e instillata nel sacco congiuntivale. Gli effetti collaterali possono essere controllati con la somministrazione di naloxone alla dose di 0,01-0,04 mg/kg/ev; quando instillata nel sacco congiuntivale si può controllare l’eccessivo effetto emetico tramite risciacquo con soluzione fisiologica. La xilazina usata da alcuni come emetico nel gatto alla dose di 0,5-1 mg/kg/im o 0,44 mg/kg/sc provoca emesi in 5-10 min, può produrre ipotensione, bradicardia, depressione respiratoria e profonda sedazione, può essere antagonizzata con 0,1 mg/kg/ev di yohimbina. L’emesi non deve essere indotta quando i pazienti hanno ingerito sostanza caustiche (ad esempio soda caustica, idrocarburi) o sostanze in grado di ledere gravemente la mucosa gastroenterica, poiché il vomito del tossico potrebbe aggravare le lesioni già presenti in esofago, laringe e cavità orale.
La lavanda gastrica si effettua quando l’induzione del vomito non è stata efficace o quando non è possibile provocare l’emesi come nei pazienti privi di coscienza, anch’essa è controindicata quando il tossico è istolesivo (ad es. acidi e basi forti). Per effettuare la lavanda gastrica il paziente deve essere sedato, intubato e posto in decubito laterale. La sonda deve avere una lunghezza pari alla distanza esistente tra la punta del naso e l’ultima costa, la lunghezza da introdurre deve essere marcata sul tubo con un cerotto a nastro o con un pennarello indelebile. La sonda deve essere del diametro maggiore possibile, avere estremità atraumatiche e fenestrate. Per verificarne il corretto posizionamento si puo’ auscultare con uno stetoscopio posto nell’area di proiezione dello stomaco il passaggio di aria o acqua introdotti nella sonda; se aspirando si ha fuoriuscita di liquido o contenuto gastrico si conferma il corretto posizionamento. Verificato il posizionamento si pone il paziente con la testa in posizione declive rispetto al resto del corpo e si introducono 5-10ml/kg di soluzione fisiologica tiepida nella sonda, successivamente si rimuove il contenuto con la tecnica dell’aspirazione tramite sifonaggio. La procedura deve esse ripetuta per circa 10 volte fino alla rimozione totale del tossico o fino a quando la soluzione rimossa è limpida e priva della sostanza tossica. Terminata la lavanda gastrica, si somministra 1-2 g/kg di carbone vegetale attivato. La polmonite ab ingestis è la complicazione più frequente (soprattutto se il paziente non è intubato), al fine di evitarla è necessario utilizzare il tubo orotracheale più grande possibile e cuffiarlo. Durante la rimozione del tubo utilizzato per la lavanda, è necessario chiuderlo con una piega al fine di evitare perdite di materiale dall’estremità distale lungo l’esofago ed in cavità orale. Altre possibili complicanze sono: laringospasmo, ipossia, ipercapnia, danni meccanici alle vie aeree, traumi e lacerazioni dell’esofago e dello stomaco.
L’irrigazione intestinale è una procedura usata soprattutto in medicina umana, utile per eliminare le sostanze tossiche dal tratto gastroenterico, si utilizza per le sostanze che vengono assorbite lentamente (ad es. rame e litio) in grado di aderire alla mucosa intestinale ed a rilascio continuo, è controindicata nei soggetti con perforazioni intestinali, occlusioni, emorragie gastroenteriche, vomito incoercibile e instabilità emodinamica. Si somministra per via orale una soluzione elettrolitica bilanciata contenente glicole polietilenico al 6%, tale soluzione attraversa tutto l’intestino senza essere assorbito, facilitando la rimozione del contenuto intestinale. Il paziente deve essere sottoposto ad anestesia generale e intubato, successivamente si somministra tramite sonda rino-esofagea 25-40 ml/kg di soluzione, seguita da un’infusione continua della stessa a 0,5 ml/Kg/h, la soluzione può essere somministrata anche in boli da 30-40 ml/kg ogni 2 ore. Le complicanze più comuni sono la nausea, il vomito, il rigurgito e le sindromi coliche.
Anche i lassativi possono essere utilizzati per incrementare la velocità del transito intestinale, diminuendo la permanenza del veleno nell’intestino e limitandone l’assorbimento. L’uso associato al carbone vegetale ne incrementa l’efficacia grazie alle proprietà adsorbenti di quest’ultimo.
In alcuni casi, per rimuovere il veleno dal colon, può essere utile effettuare clisteri con acqua tiepida (clistere dilavante), l’acqua è infusa nel retto sino ad ottenere dilatazione del colon (circa 50 ml nei gatti, da 50 a 2000 ml nel cane a seconda della taglia), la procedura si ripete fino ad ottenere una soluzione limpida o comunque priva della sostanza tossica (ad es. metaldeide). I clisteri ipertonici sono sconsigliati in quanto potrebbero causare disidratazione e gravi squilibri elettrolitici, i clisteri a base di oli minerali sono utilizzabili, ma meno efficaci.
Gli adsorbenti intestinali inibiscono l’assorbimento delle tossine nel tratto gastroenterico. L’adsorbente più utilizzato è il carbone vegetale attivato, in quanto è in grado di adsorbire la maggior parte dei veleni, si somministra ripetutamente al fine di interrompere il ciclo enteroepatico di alcune sostanze tossiche. La sua superficie adsorbente contiene numerose particelle di carbone che legano i composti con diversi gradi di affinità (predilezione per molecole neutre e non polari) sino al loro equilibrio per rilasciarli successivamente nel lume intestinale, per tale motivo è utile associarlo ai lassativi riducendo il tempo di transito e la possibilità di rilascio delle particelle adsorbite. La dose del carbone vegetale attivato dipende dalla quantità e qualità del tossico e dalla eventuale presenza di cibo; deve essere somministrata una dose di carbone attivo 10 volte maggiore alla quantità di veleno ingerita, in genere 1-4 g/kg/os, diluendo in acqua (1 g/5-10 ml acqua) e somministrandolo ogni 6 ore. Gli oli minerali non devono essere usati con il carbone vegetale attivato perché ne riducono l’efficacia, i pazienti devono essere idratati al fine di ridurre il rischio di disidratazione. In alternativa al carbone vegetale attivato, in presenza di gravi lesioni della mucosa gastroenterica (ad es. ulcere sanguinanti) può essere utilizzata la diosmectite che possiede capacità adsorbenti anche se meno efficaci del carbone vegetale attivato, la dose nei gatti e nei cani di piccola taglia è di 1-1,5 g/os/bid,tid e 3 g/os/bid,tid nei cani di taglia grande. Negli avvelenamenti da sostanze acide o corrosive è possibile soministrare anche l’idrossido di magnesio (MgOH) al 3-4% alla dose di 5-30ml/os/sid,bid nel cane e 5-15ml/os/sid,bid nel gatto.
Negli avvelenamenti conseguenti all’ingestione di acidi è sconsigliato l’uso di bicarbonato di sodio che potrebbe generare reazioni esotermiche e gravemente istolesive per la mucosa gastroenterica. A seguito dell’ingestione di sostanze caustiche può essere somministrato anche l’albume d’uovo (4-6 uova in 250 ml di acqua calda); l’albume possiede attività demulcente. In tali occasioni è stato utilizzato anche il latte, quest’ultimo è controindicato in caso di ingestione di idrocarburi o altre sostanze liposolubili in quanto ne accelera l’assorbimento.
Quando tutte le metodiche sopra elencate non sono efficaci nella rimozione del veleno, deve essere considerata la gastrotomia per la sua rimozione fisica (ad es. rimozione di tavolette di rame che aderiscono tenacemente alla mucosa gastrica o intestinale).
La terapia di supporto segue la stabilizzazione del paziente e la decontaminazione gastroenterica. La più utilizzata è la promozione della diuresi effettuata con la fluidoterapia endovenosa, promuove l’escrezione delle tossine e può essere utile quando la presenza di una tossina sia sospettata ma non confermata. La fluidoterapia con cristalloidi deve portare alla produzione di almeno 2 ml/kg/h di urine. I pazienti avvelenati sono spesso ipotermici a seguito dell’avvelenamento, della sedazione e dei trattamenti effettuati, la temperatura corporea deve essere monitorata continuamente (ogni 4-6 ore) fino al ripristino della normale termoregolazione, i pazienti ipotermici devono essere riscaldati con sistemi attivi (ad es. aria calda) o passivi (ad es. coperte). I pazienti anoressici devono esser stimolati ad assumere l’alimento utilizzando alimenti umidi e caldi o quando necessario ricorrendo ad oressizzanti. Nel cane e nel gatto ad esempio può esser utilizzato il diazepam a 0,05-0,17 mg/kg/ev, l’effetto è immediato, è perciò necessario offrire l’alimento contemporaneamente alla benzodiazepina. Quando i pazienti non si alimentano spontaneamente deve essere effettuata una nutrizione enterale forzata il più precocemente possibile. I pazienti avvelenati devono esser monitorati strettamente al fine di rilevare il più precocemente possibile complicazioni gastroenteriche, respiratorie o neurologiche.
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